Libro IV
[I] L’inverno successivo, nell’anno di consolato di Cn. Pompeo e M. Crasso, gliUsipeti e pure i Tenteri, popoli germanici, con un gran numero di uominioltrepassarono il Reno, non lontano dal mare in cui il fiume sfocia. Motivodella loro migrazione fu che, tormentati per molti anni dagli attacchi degliSvevi, si trovavano in difficoltà e non potevano coltivare i loro campi. GliSvevi, tra tutti i Germani, sono il popolo più numeroso ed agguerrito inassoluto. Si dice che siano formati da cento tribù: ognuna fornisce annualmentemille soldati, che vengono portati a combattere fuori dai loro territori controi popoli vicini. Chi è rimasto a casa, provvede a mantenere sé e gli altri;l’anno seguente si avvicendano: quest’ultimi vanno a combattere, i primirimangono in patria. Così non tralasciano né l’agricoltura, né la teoria e lapratica delle armi. E non hanno terreni privati o divisi, nessuno può rimanerepiù di un anno nello stesso luogo per praticare l’agricoltura. Si nutrono pocodi frumento, vivono soprattutto di latte e carne ovina, praticano molto lacaccia. Il tipo di alimentazione, l’esercizio quotidiano e la vita libera checonducono (fin da piccoli, infatti, non sono sottoposti ad alcun dovere odisciplina e non fanno assolutamente. nulla contro la propria volontà)accrescono le loro forze e li rendono uomini dal fisico imponente. Sono abituatia lavarsi nei fiumi e a portare come vestito, in quelle regioni freddissime,solo delle pelli che, piccole come sono, lasciano scoperta gran parte del corpo.
[II] Concedono libero accesso ai mercanti, più per aver modo di vendere il lorobottino di guerra che per desiderio di comprare prodotti d’importazione. Anzi, iGermani non fanno uso di puledri importati (al contrario dei Galli, che per essihanno una vera passione e li acquistano a caro prezzo), ma sfruttano i cavallidella loro regione, piccoli e sgraziati, rendendoli con l’esercizio quotidianorobustissimi animali da fatica. Durante gli scontri di cavalleria spessosmontano da cavallo e combattono a piedi; hanno addestrato a rimanere sul postoi cavalli, presso i quali rapidamente riparano, se necessario; secondo il loromodo di vedere, non c’è niente di più vergognoso o inerte che usare la sella.Così, per quanto pochi siano, osano attaccare qualsiasi gruppo di cavalieri chemontino su sella, non importa quanto numeroso. Non permettono assolutamentel’importazione del vino, perché ritengono che indebolisca la capacità disopportare la fatica e che infiacchisca gli animi.
[III] Reputano vanto principale per la propria nazione che le regioni di confine, peril tratto più ampio possibile, siano disabitate: è segno che moltissimi popolinon sono in grado di resistere alla loro forza militare. A tal proposito correvoce che, in una zona di confine degli Svevi, le campagne siano spopolate perseicento miglia. Un’altra parte del loro territorio confina con gli Ubi, popoloun tempo numeroso e fiorente, per quanto possano esserlo i Germani. Gli Ubi sonoun po’ più civili rispetto alle altre genti della loro razza perché, vivendolungo il Reno, sono visitati di frequente dai mercanti e, per ragioni divicinanza, hanno assorbito i costumi dei Galli. Gli Svevi li avevano spessoaffrontati in guerra, ma non erano riusciti a scacciarli dalle loro terre pervia del loro numero e della loro importanza; tuttavia, li avevano costretti aversare tributi, rendendoli molto meno potenti e forti.
[IV] Nella stessa situazione si trovarono gli Usipeti e i Tenteri, già nominati, cheressero per parecchi anni agli assalti degli Svevi, ma alla fine venneroscacciati dai loro territori e, dopo aver vagato tre anni per molte regionidella Germania, giunsero al Reno, nel paese dei Menapi che possedevano campi,case e villaggi su entrambe le rive del fiume; i Menapi, atterriti dall’arrivodi una massa così numerosa, abbandonarono gli edifici sull’altra sponda delfiume e, disposti presidi al di qua del Reno, cercavano di impedire il passaggioai Germani. Quest’ultimi, dopo tentativi d’ogni sorta, non potendo combattereperché a corto di navi, né riuscendo a passare di nascosto per la sorveglianzadei Menapi, finsero di rientrare in patria, ma dopo tre giorni di camminotornarono indietro: in una sola notte la cavalleria coprì tutto il tragitto epiombò inattesa sugli ignari Menapi, che erano rientrati nei loro villaggid’oltre Reno senza timore, perché i loro esploratori avevano confermato lapartenza dei nemici. I Germani fecero strage dei Menapi e, impadronitisi delleloro navi, attraversarono il fiume prima che sull’altra sponda giungesse notiziadell’accaduto; occupati tutti gli edifici dei Menapi, si servirono delle loroprovviste per la restante parte dell’inverno.
[V] Informato di tali avvenimenti, Cesare, che temeva la debolezza di carattere deiGalli, volubili nel prendere decisioni e per lo più desiderosi di rivolgimenti,stimò di non doversi assolutamente fidare di essi. I Galli, infatti, hanno laseguente abitudine: costringono, anche loro malgrado, i viandanti a fermarsi esi informano su ciò che ciascuno di essi ha saputo o sentito su qualsiasiargomento; nelle città, la gente attornia i mercanti e li obbliga a dire dadove provengano e che cosa lì abbiano saputo; poi, sulla scorta delle voci edelle notizie udite, spesso decidono su questioni della massima importanza edevono ben presto pentirsene, perché prestano fede a dicerie infondate, inquanto la maggior parte degli interpellati risponde cose non vere pur dicompiacerli.
[VI] Cesare, che conosceva tale abitudine, per non andare incontro a una guerratroppo pesante, partì alla volta dell’esercito prima del solito. Appena giunto,apprese che i suoi sospetti si erano avverati: parecchi popoli avevano inviatoambascerie ai Germani, chiedendo che varcassero il Reno e promettendo diesaudire ogni loro richiesta. I Germani, attratti da tali speranze, già sistavano spingendo più lontano ed erano pervenuti nelle terre degli Eburoni edei Condrusi, clienti dei Treveri. Cesare convocò i principi della Gallia, maritenne opportuno dissimulare ciò di cui era invece al corrente; li blandì, lirassicurò, chiese i contingenti di cavalleria e prese la risoluzione di muovereguerra ai Germani.
[VII] Avendo procurato frumento e scelta la cavalleria, cominciò a dirigersi versoquelle parti nelle quali aveva sentito essere i Germani. Quando fu distante daessi solo pochi giorni di marcia, dai loro stati vennero degli ambasciatori, ildiscorso dei quali fu come segue: i Germani né vogliono combattere contro ilpopolo Romano, né vogliono rifiutare, se sono provocati, a combattere contro diloro, poiché è una consuetudine dei Germani, tramandata dai loro avi, di nonresitere né di implorare chiunque porti loro guerra. Comunque essi dicono diessere venuti qui contro la loro volontà, essendo stati cacciati dalle lorocase; se i Romani sono disposti ad accettarli, possono essere utili amici; e glidiano o dei territori, o gli permettano di riprendere quelli che hanno acquisitocon le armi: essi sono inferiori solo ai Suevi, ai quali neanche gli deiimmortali possono mostrarsi uguali; non c’è niente altro sulla terra che loronon possono conquistare.
[VIII] A tali parole Cesare rispose come gli sembrò più opportuno; ma ecco cometerminò il suo discorso: non poteva stringere con loro alcuna alleanza, serimanevano in Gallia; e non era giusto che occupasse le terre altrui chi non erariuscito a difendere le proprie; in Gallia non c’erano regioni libere da poterassegnare – tanto meno a un gruppo così numeroso – senza danneggiare nessuno,ma concedeva loro, se lo volevano, di stabilirsi nei territori degli Ubi, chegli avevano inviato emissari per lamentarsi dei soprusi degli Svevi e perchiedergli aiuto: ne avrebbe dato ordine agli Ubi.
[IX] I membri dell’ambasceria dissero che avrebbero riferito e che si sarebberoripresentati dopo tre giorni con la risposta. Chiesero a Cesare, però, di nonavanzare ulteriormente nel frattempo. Cesare dichiarò di non poter concedereneppure questo. Era venuto a conoscenza, infatti, che i Germani, alcuni giorniprima, avevano inviato gran parte della cavalleria al di là della Mosa, nellaregione degli Ambivariti, a scopo di razzia e in cerca di grano. Riteneva,dunque, che stessero aspettando i loro cavalieri e che, a tal fine, cercasserodi prendere tempo.
[X] La Mosa nasce dai monti Vosgi, nella regione dei Lingoni; a non più di ottantamiglia di distanza dall’Oceano, si getta nel Reno. Il Reno nasce nella regionedei Leponzi, un popolo delle Alpi, scorre vorticoso per lungo tratto nelle terredei Nantuati, degli Elvezi, dei Sequani, dei Mediomatrici, dei Triboci e deiTreveri; poi, nei pressi dell’Oceano, si divide in diversi rami e forma molteisole di notevoli dimensioni, per la maggior parte abitate da genti incolte ebarbare, alcune delle quali si ritiene che vivano di pesci e di uova d’uccelli.Sfocia con molte diramazioni nell’Oceano.
[XI] Cesare non distava più di dodici miglia dal nemico, quando i membridell’ambasceria ritornarono, secondo gli accordi. Gli si presentarono che era inmarcia e lo pregavano, invano, di non avanzare ulteriormente. Gli chiedevano,allora, di dar ordine alla cavalleria, posta all’avanguardia, di non aprire leostilità e gli domandavano il permesso di inviare un’ambasceria agli Ubi: se icapi e il senato degli Ubi avessero fornito garanzie mediante un giuramentosolenne, si dichiaravano pronti ad accettare le condizioni proposte da Cesare.Ma, per condurre a termine le operazioni necessarie, chiedevano tre giorni ditempo. Cesare riteneva che la richiesta mirasse sempre a consentire, nei tregiorni di tregua, il rientro dei cavalieri che si erano allontanati; tuttavia,disse che per quel giorno si sarebbe spinto in avanti non oltre le quattromiglia, al solo scopo di rifornirsi d’acqua, ma comandò che l’indomani sipresentassero lì nel maggior numero possibile per conoscere la sua risposta. Altempo stesso, ai prefetti della cavalleria, che precedeva l’esercito, manda deimessi con l’ordine di non provocare a battaglia i nemici e di difendersi, incaso di attacco, fino al suo arrivo con le legioni.
[XII] Ma i nemici, non appena videro la nostra cavalleria – benché contasse circacinquemila unità, mentre essi non erano più di ottocento, non essendo ancorarientrati i cavalieri che avevano varcato la Mosa in cerca di grano – silanciarono all’attacco e scompaginarono in breve tempo i nostri, che nonnutrivano alcun timore, in quanto l’ambasceria dei Germani aveva appena lasciatoCesare chiedendo, per quel giorno, tregua. Quando i nostri riuscirono a opporreresistenza, gli avversari, secondo la loro tecnica abituale, balzarono a terrae, ferendo al ventre i cavalli, disarcionarono molti dei nostri e costrinseroalla fuga i superstiti, premendoli e terrorizzandoli al punto che non cessaronola ritirata se non quando furono in vista del nostro esercito in marcia. Nelloscontro perdono la vita settantaquattro nostri cavalieri, tra cui l’aquitanoPisone, uomo di grandissimo valore e di alto lignaggio: un suo avo aveva tenutola suprema autorità tra la sua gente e ricevuto dal senato di Roma il titolo diamico. Pisone, accorso in aiuto del fratello circondato dai nemici, era riuscitoa liberarlo; disarcionato – il suo cavallo era stato colpito – resistette conestremo valore finché ebbe forza: poi, circondato da molti avversari, cadde. Ilfratello, che aveva già lasciato la mischia, lo vide da lontano: sferzato ilcavallo, si gettò sui nemici e rimase ucciso.
[XIII] Dopo tale scontro, Cesare ormai non stimava giusto ascoltare gli ambasciatori oaccogliere le proposte di un popolo che, dopo aver chiesto pace, avevadeliberatamente aperto le ostilità con agguati e imboscate; d’altro canto,considerava pura follia aspettare che il numero dei nemici aumentasse con ilrientro della cavalleria e, ben conoscendo la volubilità dei Galli, intuivaquanto prestigio i Germani avessero già acquisito con una sola battaglia; perciò,riteneva di non dover assolutamente concedere loro il tempo di prenderedecisioni. Aveva già assunto tali risoluzioni e informato i legati e ilquestore che non intendeva differire l’attacco neppure di un giorno, quando sipresentò un’occasione veramente favorevole: proprio la mattina seguente iGermani, sempre con la stessa perfida ipocrisia, si presentarono al campo diCesare, in gran numero, con tutti i principi e i più anziani. Volevano, a dettaloro, sia chiedere perdono per l’attacco sferrato il giorno precedente controgli accordi e le loro stesse richieste, sia ottenere, se possibile, unadilazione: ma il solo scopo era di tendere una trappola. Cesare, lieto che glisi fossero offerti, ordinò di trattenerli, portò fuori dall’accampamento tuttele sue truppe e ordinò alla cavalleria di chiudere lo schieramento, ritenendolaancora scossa per la recente sconfitta.
[XIV] Disposto l’esercito su tre file, percorse rapidamente otto miglia e piombò sulcampo nemico prima che i Germani potessero rendersi conto di cosa stavaaccadendo. I nemici, atterriti per più di una ragione, dall’arrivo improvvisodei nostri, dall’assenza dei loro, dal non avere il tempo di prendere alcunadecisione, né di correre alle armi, erano incerti se conveniva affrontare iRomani, difendere l’accampamento o darsi alla fuga. I rumori e la confusionedavano il segno del timore che regnava tra i nemici; i nostri, irritati dalproditorio attacco del giorno precedente, fecero irruzione nel campo avversario.Qui, chi riuscì ad armarsi in fretta, per un po’ oppose resistenza, combattendotra i carri e le salmerie; gli altri, invece, ossia le donne e i bambini(infatti, avevano abbandonato le loro terre e attraversato il Reno con lefamiglie) si diedero a una fuga disordinata. Al loro inseguimento Cesare inviòla cavalleria.
[XV] I Germani, uditi i clamori alle spalle, quando videro che i loro venivanomassacrati, gettarono le armi, abbandonarono le insegne e fuggironodall’accampamento. Giunti alla confluenza della Mosa con il Reno, dove nonavevano più speranze di fuga, molti vennero uccisi, gli altri si gettarono nelfiume e qui, vinti dalla paura, dalla stanchezza, dalla forte corrente,morirono. I nostri, tutti salvi dal primo all’ultimo, con pochissimi feriti,rientrarono al campo dopo le apprensioni nutrite per uno scontro cosìrischioso, considerando che il nemico contava quattrocentotrentamila persone. AiGermani prigionieri nell’accampamento Cesare permise di allontanarsi, macostoro, temendo atroci supplizi da parte dei Galli di cui avevano saccheggiatoi campi, dissero di voler rimanere presso di lui. Cesare concesse loro la libertà.
[XVI] Terminata la guerra con i Germani, Cesare decise che doveva varcare il Reno, permolte ragioni, di cui una importantissima: vedendo con quale facilità i Germanitendevano a passare in Gallia, voleva che nutrissero timore anche per il propriopaese, quando si fossero resi conto che l’esercito del popolo romano poteva eosava oltrepassare il Reno. Si aggiungeva un’altra considerazione: la partedella cavalleria degli Usipeti e dei Tenteri che, come abbiamo detto,attraversata la Mosa a scopo di razzia e in cerca di grano, non avevapartecipato alla battaglia, dopo la fuga dei suoi si era rifugiata al di là delReno, nelle terre dei Sigambri, unendosi a essi. Cesare, per chiedere laconsegna di chi aveva mosso guerra a lui e alla Gallia, mandò suoi emissari aiSigambri, che così risposero: il Reno segnava i confini del dominio di Roma; seegli riteneva ingiusto che i Germani, contro il suo volere, passassero in Gallia,perché pretendeva di aver dominio o potere al di là del Reno? Gli Ubi, poi,l’unico popolo d’oltre Reno che avesse inviato a Cesare emissari, stringendoalleanza e consegnando ostaggi, lo scongiuravano di intervenire in loro aiutoperché incombevano su di loro, pesantemente, gli Svevi; oppure, se ne eraimpedito dagli affari di stato, lo pregavano, almeno, di condurre l’esercito aldi là del Reno: sarebbe stato un ausilio sufficiente per il presente e unasperanza per il futuro. Il nome e la fama dell’esercito romano, dopo la vittoriasu Ariovisto e il recentissimo successo, aveva raggiunto anche le più lontanegenti germane: considerati alleati del popolo romano, gli Ubi sarebbero stati alsicuro. Promettevano una flotta numerosa per trasportare l’esercito.
[XVII] Per i motivi che ho ricordato, Cesare aveva deciso di oltrepassare il Reno, mariteneva che l’impiego delle navi non fosse abbastanza sicuro e non lo giudicavaconsono alla dignità sua e del popolo romano. Così, sebbene si presentasserogravi difficoltà per costruire un ponte – come la larghezza e la profonditàdel fiume, la rapidità della corrente – egli tuttavia stimava necessarioadottare tale soluzione oppure rinunciare all’impresa. Ecco come progettò lastruttura dei ponte. A distanza di due piedi univa, a due per volta, travilievemente appuntite in basso, del diametro di un piede e mezzo di altezzacommisurata alla profondità del fiume; poi, mediante macchinari le calava inacqua e con battipali le conficcava sul fondo del fiume, non a perpendicolo,come le travi delle palafitte, ma oblique e in pendenza, in modo da inclinarenel senso della corrente; più in basso, alla distanza di quaranta passi edirimpetto alle prime travi, ne poneva altre, sempre legate a due a due, coninclinazione opposta all’impeto e alla corrente del fiume. Nell’interstiziocollocava pali dello spessore di due piedi – pari alla distanza delle traviaccoppiate – e, fissandoli con due arpioni, impediva che esse in cima sitoccassero; perciò, poggiando su travi separate e ben ribadite in direzionecontraria, la struttura del ponte risultava tale, da reggere, per necessitànaturale, tanto più saldamente, quanto più impetuosa fosse la corrente. Suipali venivano disposte, in senso orizzontale, altre travi su cui poggiavanotavole e graticci; inoltre, come sostegno, a valle venivano aggiunti, obliqui,pali fissati al resto della struttura per resistere alla corrente impetuosa; cosìpure altre travi, a monte, venivano collocate non lontano dal ponte, allo scopodi frenare eventuali tronchi o navi che i barbari avessero lanciato contro lacostruzione per distruggerla: l’impatto sarebbe stato attutito e i danni alponte limitati.
[XVIII] Da quando ebbe inizio la raccolta del materiale, in dieci giorni il lavoro fuportato a termine e l’esercito oltrepassò il fiume. Lasciati saldi presidi suentrambe le sponde, Cesare marciò verso il territorio dei Sigambri. Frattantogli si presentano ambascerie di parecchie nazioni, alle cui richieste di pace ealleanza egli risponde benevolmente e ordina la consegna di ostaggi. Da quandoerano incominciati i lavori per il ponte, i Sigambri, su pressione dei Tenteri edegli Usipeti che erano con loro, avevano preparato la fuga ed evacuato i loroterritori, portando con sé tutti i loro beni e rifugiandosi in forestedisabitate.
[XIX] Cesare si trattenne pochi giorni nella regione dei Sigambri, dove diede allefiamme tutti i villaggi e le singole abitazioni e distrusse i raccolti, quindiripiegò nei territori degli Ubi, a cui aveva promesso il suo aiuto in caso diattacco degli Svevi. Dagli Ubi venne a sapere quanto segue: gli Svevi, messi alcorrente dai loro esploratori che si costruiva un ponte, tenuta un’assemblea,secondo il loro costume, avevano poi inviato emissari in tutte le direzioni, conl’ordine di evacuare le città e di mettere al sicuro nelle selve i figli, lemogli e ogni loro bene, mentre tutti gli uomini in grado di combattere dovevanoradunarsi in un solo luogo, quasi al centro delle regioni controllate dagliSvevi: si era stabilito che lì avrebbero atteso l’arrivo dei Romani ecombattuto. Cesare, quando lo seppe, avendo raggiunto gli scopi che lo avevanospinto ad attraversare il Reno (incutere timore ai Germani, punire i Sigambri,liberare gli Ubi dall’oppressione degli Svevi) e ritenendo, inoltre, che idiciotto giorni, in tutto, trascorsi al di là del Reno gli avessero procuratofama e vantaggi sufficienti, rientrò in Gallia e distrusse il ponte.
[XX] Nel breve periodo estivo che rimaneva Cesare, nonostante in questi luoghi, cometutta la Gallia a nord, gli inverni sono precoci, decise di procedere inBritannia, poiché sapeva che in quasi tutte le guerre galliche ai nostri nemicida lì erano venuti aiuti e, se non fosse bastato il tempo per fare una guerra,pensò comunque che sarebbe stato di grande utilità, per sé, se si fossesoltanto avvicinato all’isola e avesse osservato con molta attenzione la gente eavesse conosciuto i luoghi, i porti, i luoghi di sbarco; che erano per lamaggior parte sconosciuti ai Galli. Poichè nessuno facilmente va lì tranne imercanti, né a loro era conosciuta alcuna porzione di essa, tranne la costa equelle parti che stanno di fronte alla Gallia. Quindi, pur avendo fatto venireda ogni parte dei mercanti, non seppe né la dimensione dell’isola, né quali oquanto numerose fossero le nazioni che la abitavano, né quale sistema di guerrausavano, nè quali fossero i loro costumi, né quali porti fossero adatti per ungran numero di navi.
[XXI] Allo scopo di raccogliere informazioni in proposito, prima di affrontarel’impresa, Cesare manda in avanscoperta una nave da guerra agli ordini di C.Voluseno, ritenendolo adatto per la missione. Lo incarica di rientrare al piùpresto, una volta terminata la ricognizione. Dal canto suo, con l’esercito alcompleto si dirige nei territori dei Morini, perché da lì il tragitto verso laBritannia era il più breve. Ordina che qui si radunino le navi provenienti datutte le regioni limitrofe e la flotta allestita l’estate precedente per laguerra contro i Veneti. Nel frattempo, le sue manovre vengono risapute e imercanti le riferiscono ai Britanni: da parte di molti popoli dell’isolagiungono messi per promettere che avrebbero consegnato ostaggi e si sarebberosottomessi al dominio del popolo romano. Cesare li ascolta e, esortandoli a nonmutare parere, con benevoli promesse li rimanda in patria accompagnati da Commio,che in Britannia godeva di grande autorità: Cesare ne stimava il valore el’intelligenza e lo riteneva fedele al punto che lo aveva designato re degliAtrebati dopo averli sconfitti in battaglia. A Commio dà ordine di prenderecontatti con il maggior numero di popoli per sollecitarli a mettersi sotto laprotezione di Roma e per annunciare che presto Cesare sarebbe giunto. Voluseno,compiuta la ricognizione in tutte le zone, per quanto gli fu possibile, dato chenon volle correre il rischio di sbarcare e di entrare in contatto con i barbari,raggiunge Cesare quattro giorni dopo e gli riferisce ciò che aveva osservato.
[XXII] Mentre per preparare la flotta Cesare si attardava nei territori dei Morini,molte tribù della regione gli inviarono emissari per scusarsi della lorocondotta passata, quando, barbari e ignari delle nostre consuetudini, avevanomosso guerra al popolo romano: adesso promettevano ubbidienza ai suoi ordini.Cesare la giudicò una circostanza veramente favorevole, perché non volevalasciarsi un nemico alle spalle e, con l’estate che volgeva al termine, nonaveva il tempo di sostenere una guerra; inoltre, stimava di non dover anteporreun problema di così lieve entità alla Britannia; pretese, allora, la consegnadi un alto numero di ostaggi. Ricevuti i quali, pose i Morini sotto la propriaprotezione. Circa ottanta navi da carico, numero che giudicava sufficiente peril trasporto delle legioni, vennero radunate e munite di tolde. Le navi daguerra di cui disponeva vennero suddivise tra il questore, i legati e iprefetti. A esse si aggiungevano altre diciotto navi da carico, che erano a ottomiglia di distanza e non riuscivano a raggiungere il porto per via del vento: leriservò alla cavalleria. Ai legati Q. Titurio Sabino e L. Aurunculeio Cottaaffidò il resto dell’esercito col compito di guidarlo contro i Menapi e le tribùdei Morini che non avevano inviato ambascerie. Lasciò al legato P. SulpicioRufo una guarnigione giudicata sufficiente, con l’ordine di presidiare il porto.
[XXIII] Presi tali provvedimenti, approfittando del tempo favorevole alla navigazione,salpò all’incirca dopo mezzanotte e comandò alla cavalleria di raggiungere ilporto successivo per imbarcarsi e seguirlo. I cavalieri eseguirono gli ordinitroppo lentamente; Cesare, invece, con le prime navi pervenne alle coste dellaBritannia verso le nove di mattina e lì vide le truppe nemiche, in armi,schierate su tutte le alture circostanti. La natura del luogo era tale e lescogliere erano così a precipizio sul mare, che i dardi scagliati dall’altopotevano raggiungere il litorale. Avendo giudicato il luogo assolutamenteinadatto per uno sbarco, gettò l’ancora e fino alle due del pomeriggio attesel’arrivo delle altre navi. Nel frattempo, convocati i legati e i tribunimilitari, espose le informazioni raccolte da Voluseno e il suo piano,invitandoli a compiere tutte le manovre al primo cenno e istantaneamente, comerichiede la tecnica militare, soprattutto negli scontri navali, dove i movimentisono rapidi e variano continuamente. Dopo averli congedati, sfruttando ilcontemporaneo favore della marea e del vento, diede il segnale e levò leancore. Avanzò per circa sette miglia e mise le navi alla fonda in un punto incui il litorale era aperto e piano.
[XXIV] Ma i barbari, avendo inteso i propositi dei Romani, avevano mandato in avanti,seguiti dal resto dell’esercito, i cavalieri e gli essedari – reparti che disolito impiegano in battaglia – impedendo lo sbarco ai nostri, che incontravanoenormi difficoltà: le navi, per le loro dimensioni, potevano fermarsi solo allargo; i soldati, poi, non conoscevano i luoghi, non avevano le mani libere,erano appesantiti dalle armi e dovevano, contemporaneamente, scendere dallenavi, resistere alle onde, combattere contro i nemici. I barbari, invece, liberinei movimenti, combattevano dalla terraferma o entravano appena in acqua,conoscevano alla perfezione i luoghi, con audacia scagliavano frecce elanciavano alla carica i loro cavalli, abituati a tali operazioni. I nostri,sgomenti per tutto ciò, trovandosi di fronte a una tecnica di combattimento deltutto nuova, non si battevano con il solito zelo e ardore dimostrato in campoaperto.
[XXV] Quando se ne accorse, Cesare ordinò che le navi da guerra, di forma inconsuetaper i barbari e facilmente manovrabili, si staccassero un po’ dalle imbarcazionida carico e, accelerando a forza di remi, si disponessero sul fianco destro delnemico e, da qui, azionassero le fionde, gli archi, le macchine da lancio percostringere gli avversari alla ritirata. La manovra si rivelò molto utile.Infatti, i barbari, scossi dalla forma delle navi, dal movimento dei remi edall’insolito genere di macchine da lancio, si arrestarono e ripiegaronoleggermente. Ma, visto che i nostri soldati, soprattutto per la profonditàdell’acqua, esitavano, l’aquilifero della decima legione, dopo aver pregato glidèi di dare felice esito all’impresa, gridò: “Saltate giù, commilitoni,se non volete consegnare l’aquila al nemico: io, per parte mia, avrò fatto ilmio dovere verso la repubblica e il comandante”. Lo disse a gran voce, poisaltò giù dalla nave e cominciò a correre contro i nemici. Allora i nostri,vicendevolmente spronandosi a non permettere un’onta così grave, saltarono giùdalla nave, tutti quanti. Anche i soldati delle navi vicine, come li videro, liseguirono e avanzarono contro i nemici.
[XXVI] Si combatté con accanimento da entrambe le parti. I nostri, tuttavia, erano inpreda allo scompiglio, non riuscendo a mantenere lo schieramento, ad attestarsisaldamente, a seguire le proprie insegne, in quanto ciascuno, appena sbarcato,si univa alle prime in cui si imbatteva. I nemici, invece, che conoscevano tuttii bassifondi, non appena dal litorale vedevano alcuni dei nostri sbarcareisolati dalle navi, lanciavano i cavalli al galoppo e alla carica dei legionariin difficoltà: molti dei loro circondavano pochi dei nostri, mentre altri dalfianco destro, scagliavano un nugolo di frecce sul grosso dello schieramento.Cesare, appena se ne accorse, ordinò di riempire di soldati le scialuppe dellenavi da guerra e i battelli da ricognizione e li inviò in aiuto di chi avevavisto in difficoltà. I nostri, non appena riuscirono ad attestarsi sullaterraferma, formati i ranghi, passarono al contrattacco e costrinsero alla fugagli avversari, ma non ebbero modo di protrarre l’inseguimento, perché le navicon la cavalleria avevano perso la rotta e non erano riuscite a raggiungerel’isola: solo questo mancò alla solita buona stella di Cesare.
[XXVII] I nemici, vinti in battaglia, non appena si riebbero dall’affanno della fuga,immediatamente inviarono messi a Cesare per offrirgli la resa, promettendo laconsegna di ostaggi e il rispetto degli ordini che volesse impartire. Insieme aloro giunse l’atrebate Commio, l’uomo mandato da Cesare in Britannia inavanscoperta, come in precedenza avevo chiarito. Non appena Commio era scesodalla nave e aveva riferito, come portavoce, le richieste di Cesare, i Britannilo avevano fatto prigioniero e messo in catene; ora, dopo la battaglia, loavevano liberato e, nel domandare pace, attribuivano la responsabilitàdell’accaduto al popolo, chiedendo di perdonare una colpa dovuta allaleggerezza. Cesare si lamentò che i Britanni, dopo aver spontaneamente inviatoambascerie sul continente per domandare pace, gli avevano poi mosso guerra senzamotivo, ma disse che perdonava la loro leggerezza e chiese ostaggi. Una partevenne consegnata immediatamente, altri invece, fatti venire da regioni lontane.li avrebbero consegnati – dissero – entro pochi giorni. Nel frattempo, diederodisposizione ai loro di ritornare alle campagne; i principi di tutte le regionisi riunirono e cominciarono a pregare Cesare di aver riguardo per loro e per irispettivi popoli.
[XXVIII] Con tali misure la pace era assicurata: quattro giorni dopo il nostro arrivo inBritannia, le diciotto navi di cui si è parlato, su cui era imbarcata lacavalleria, dal porto più settentrionale salparono con una leggera brezza. Sistavano avvicinando alla Britannia ed erano già state avvistatedall’accampamento, quando all’improvviso si levò una tempesta così violenta,che nessuna delle navi riuscì a tenere la rotta: alcune vennero risospinteverso il porto di partenza, altre con grave pericolo vennero spinte verso laparte sud-occidentale dell’isola. Tentarono di gettare l’ancora, ma, sommersedalla violenza dei flutti, furono costrette, sebbene fosse notte, a prendere illargo e a dirigersi verso il continente.
[XXIX] Capitò che quella notte stessa ci fosse luna piena, momento in cui la mareanell’Oceano è più alta, e i nostri non lo sapevano. Così, nello stesso tempo,la marea sommerse le navi da guerra impiegate per trasportare l’esercito e poitirate in secco, mentre la tempesta sbatteva l’una contro l’altra leimbarcazioni da carico, che erano all’àncora, senza che i nostri avessero laminima possibilità di manovrare o porvi rimedio. Molte navi rimaserodanneggiate, le altre, perse le funi, le ancore e il resto dell’attrezzatura,erano inutilizzabili: un profondo turbamento, com’era inevitabile, si impadronìdi tutto l’esercito. Non c’erano, infatti, altre navi con cui ritornare, mancavatutto il necessario per riparare le barche danneggiate e, poiché tuttipensavano che si dovesse svernare in Gallia, sull’isola non si era provvisto ilgrano per l’inverno.
[XXX] Appena ne furono informati, i principi britanni, che si erano recati da Cesaredopo la battaglia, presero accordi: rendendosi conto che i Romani non avevano nécavalleria, né navi, né frumento e constatando che dovevano essere ben pochi,viste le dimensioni dell’accampamento, ancor più ridotto del solito in quantoCesare aveva trasportato le legioni senza bagagli, ritennero che la cosamigliore fosse ribellarsi, ostacolare i nostri nell’approvvigionamento di granoe viveri, protrarre le ostilità fino all’inverno, perché erano sicuri che,sconfiggendo i Romani o impedendo loro il ritorno, nessuno in futuro sarebbepenetrato in Britannia per portarvi guerra. Così, formata nuovamente una lega,a poco a poco cominciarono a lasciare l’accampamento romano e a radunare dinascosto i loro uomini dalle campagne.
[XXXI] Cesare non conosceva ancora il loro piano, ma dopo il disastro capitato allenavi e visto che non gli venivano più consegnati ostaggi, sospettava quello chesarebbe poi accaduto. Perciò, si premuniva per qualsiasi evenienza. Ognigiorno, infatti, disponeva che dalle campagne portassero grano all’accampamento,si serviva del legname e del bronzo delle navi più danneggiate per riparare lealtre e ordinava di procurarsi dal continente il materiale necessario a talescopo. Così, grazie allo straordinario impegno dei nostri soldati, purrisultando perdute dodici navi, mise le altre in condizione di navigare senzaproblemi.
[XXXII] Mentre accadevano tali fatti, come di consueto una legione, la settima, erastata inviata in cerca di grano (fino ad allora non si nutriva alcun sospetto diguerra, visto che parte dei Britanni si trovava nelle campagne, partefrequentava ancora l’accampamento romano). Le guardie dislocate alle porte delcampo annunziarono a Cesare che, nella direzione in cui si era mossa la nostralegione, si vedeva levarsi più polvere del solito. Cesare, sospettando che ibarbari, come in effetti era, stessero tentando qualche novità, ordinò allecoorti di guardia di partire con lui in quella direzione, e a due delle altre diprendere il loro posto: le rimanenti avrebbero dovuto armarsi e seguirlo al piùpresto. A una certa distanza dal campo, vide che i suoi erano pressati dalnemico e resistevano a fatica: sulla legione, serrata, piovevano frecce da tuttii lati. Ecco che cosa era accaduto: poiché il grano era stato raccolto in tuttii campi tranne uno, i nemici, supponendo che i nostri si sarebbero qui diretti,di notte si erano nascosti nelle selve; poi, erano piombati all’improvviso suinostri, che si erano sparpagliati e avevano deposto le armi per attendere allamietitura. Ne avevano uccisi pochi, ma gli altri, che non riuscivano a riformarei ranghi ed erano in pieno scompiglio, li avevano accerchiati contemporaneamentecon i cavalieri e gli essedari.
[XXXIII] La loro tecnica di combattimento con i carri è la seguente: prima corrono intutte le direzioni, scagliano frecce e con i loro cavalli e lo strepito delleruote gettano il panico, in genere, tra le file avversarie, che si disuniscono;poi, quando riescono a penetrare tra gli squadroni di cavalleria, scendono daicarri e combattono a piedi. Nel frattempo, gli aurighi a poco a poco siallontanano dalla mischia e piazzano i carri in modo tale che i loro compagni,nel caso siano incalzati da un gran numero di nemici, abbiano la possibilità dimettersi rapidamente al sicuro. Così, nelle battaglie si assicurano la mobilitàdei cavalieri e la stabilità dei fanti. Grazie alla pratica e all’esercizioquotidiano sono capaci di frenare, anche in pendii a precipizio, i cavallilanciati al galoppo, di moderarne la velocità e di cambiare direzione in pocospazio, di correre sopra il timone del carro, di tenersi fermi sul giogo deicavalli e poi, da qui, di ritornare sui carri in un attimo.
[XXXIV] Perciò, mentre i nostri erano disorientati dall’insolita tattica dicombattimento, Cesare giunse in aiuto nel momento più opportuno: con il suoarrivo, infatti, i nemici si arrestarono, i nostri ripresero coraggio. Tuttavia,Cesare ritenne che non fosse il momento adatto per sfidare gli avversari eattaccar battaglia, perciò tenne le proprie posizioni e, poco dopo, ricondussele legioni all’accampamento. Mentre si svolgono questi fatti, tenendo impegnatitutti i nostri, si ritirarono gli altri Britanni che si trovavano nellecampagne. Per parecchi giorni si rovesciarono piogge senza interruzione, checostrinsero i nostri nell’accampamento e impedirono ai nemici di attaccare. Nelfrattempo, i barbari inviarono messaggeri in tutte le direzioni, continuando ainsistere sul fatto che i nostri erano ben pochi e a spiegare quale bottino,quale possibilità di rendersi per sempre liberi li attendesse, se avesseroscacciato i Romani dal loro campo. Così, dopo aver radunato un gran numero difanti e cavalieri, mossero sull’accampamento romano.
[XXXV] Cesare si rendeva conto che si sarebbe verificata la stessa situazione dellebattaglie precedenti: il nemico, in caso fosse stato battuto, si sarebbesottratto a ogni pericolo grazie alla sua rapidità di movimento. Tuttavia,disponendo di circa trenta cavalieri che l’atrebate Commio, di cui si è giàparlato, aveva condotto con sé, Cesare decise di schierare dinanziall’accampamento le legioni, pronte alla battaglia. Lo scontro ebbe luogo: inemici non riuscirono a reggere all’attacco dei legionari a lungo e si volseroin fuga. I nostri li inseguirono finché ebbero la forza di correre; dopo averneuccisi molti, incendiarono gli edifici in lungo e in largo e rientrarono alcampo.
[XXXVI] Quel giorno stesso a Cesare si presentarono emissari per chiedere pace. Egliraddoppiò il numero di ostaggi chiesti in precedenza e ne ordinò la consegnasul continente, perché non riteneva opportuno affrontare d’inverno latraversata – l’equinozio era vicino – con le navi in cattivo stato.Approfittando di un tempo favorevole, salpò poco dopo la mezzanotte: tutte lenavi raggiunsero senza danni il continente; solo due imbarcazioni da carico nonriuscirono ad approdare agli stessi porti delle altre e vennero sospinte un po’più a sud.
[XXXVII] Da queste due navi sbarcarono circa trecento dei nostri, che si diressero versol’accampamento. I Morini, che Cesare al momento della partenza per la Britanniaaveva lasciato pacificati, spinti dalla speranza di bottino, circondaronodapprima in numero non altissimo i nostri e intimarono loro la resa, se volevanoaver salva la vita. Mentre i legionari, disposti in cerchio, si difendevano,alle grida dei Morini sopraggiunsero rapidamente altri seimila uomini circa.Appena ne fu informato, Cesare, a sostegno dei suoi, inviò tutta la cavalleriapresente al campo. Nel frattempo, i nostri ressero all’urto dei nemici e sibatterono con estremo valore per più di quattro ore: subirono poche perdite euccisero molti nemici. E non appena comparve la cavalleria, i nemici gettaronole armi e si diedero alla fuga: i nostri ne fecero strage.
[XXXVIII] Il giorno seguente, contro i Morini che si erano ribellati, Cesare inviò illegato T. Labieno alla testa delle legioni rientrate dalla Britannia. Le paludierano in secca e i nemici, che non potevano rifugiarvisi come l’anno precedente,non sapevano dove ripiegare, perciò si sottomisero quasi tutti all’autorità diLabieno. E i legati Q. Titurio e L. Cotta, che avevano guidato le legioni nellaregione dei Menapi, ritornarono da Cesare dopo aver devastato tutti i campi,distrutto i raccolti, incendiato gli edifici, in quanto la popolazione si erarifugiata in massa nel folto dei boschi. Cesare stabilì che tutte le legioniponessero i quartieri d’inverno nelle terre dei Belgi. Lì pervennero gliostaggi di due popoli britanni in tutto; gli altri contravvennero all’impegno diinviarli. In seguito a tali imprese, comunicate per lettera da Cesare, il senatodecretò venti giorni di feste solenni di ringraziamento.